Categoria: Counseling

Le relazioni che vogliamo

Sono una mamma di un bambino di nove anni (ora quasi diciotto!) e sono convinta che crescere un figlio possa essere un’esperienza ancor più meravigliosa se maggiormente consapevole dell’esistenza e funzionamento di alcune dinamiche relazionali.

Spesso noi genitori confidiamo in qualcuno o qualcosa, non importa se più o meno esperto e interessato di noi, che ci fornisca una serie di regole da seguire, che acconsentiamo ci venga presentato come il metodo efficace per crescere i nostri figli, come se si trattasse della miglior ricetta per la preparazione di un dolce. Con il risultato che, confusi nel bel mezzo del caos quotidiano, ci troviamo ad essere sballottati tra uno slogan e l’altro, o tra una teoria e l’altra, sentendoci il più delle volte impotenti per non aver raggiunto la tanto ambita e standardizzata idea del genitore perfetto. Con buona pace della serenità e armonia familiare e, complice il fedele compagno del senso di colpa galoppante, ci sentiamo sempre più insicuri e insoddisfatti e, più o meno consapevolmente, deleghiamo inesorabilmente la determinazione dell’armonia in famiglia ai nostri piccoli.

Ma allora, che fare? Si tratta, a mio parere, di aver voglia e coraggio di prendere in mano la situazione e di decidere che tipo di relazione vogliamo con i nostri figli.
Nella mia breve esperienza di mamma, ho imparato che regole uguali ed efficaci per tutti non esistono e neppure un ‘metodo efficace’ uguale per tutti. Il motivo é molto semplice: discutere in termini di ‘metodo’ rispetto all’educazione dei figli presuppone che il soggetto che ne risulta in qualche modo destinatario sia trattato o, peggio ancora, considerato, come un ‘oggetto’ e non, prima di tutto, come una persona. I nostri figli non sono e non devono essere l’oggetto di un metodo da applicare, ma persone trattate con pari dignità di quella che noi stessi vorremmo ricevere. Si tratta solo di considerarci da un altro punto di vista, di cambiare prospettiva smettendo di credere che sia il bambino il problema e assumendoci le nostre responsabilità e il nostro posto all’interno della relazione.

A questo punto, sorgo una domanda: quante volte al giorno capita di sentirsi frustrati e disorientati rispetto alle inattese o apparentemente capricciose richieste dei nostri piccoli?
Ebbene, a mio avviso, il solo fatto di sapere che i bambini non fanno capricci e non sono programmati per renderci la vita difficile, ma hanno tutto il desiderio di collaborare, consente di affrontare la situazione da un punto di vista molto diverso rispetto a quello di gestire un figlio ingestibile.
Sapere che in realtà il loro primario desiderio é quello di conoscerci e farsi conoscere da noi, non vi fa sentire già più sollevati ? E se poi consideriamo che dietro ogni loro richiesta si nascondono esclusivamente dei bisogni, più o meno profondi, di attenzione, conferma e amore, allora possiamo stare davvero tranquilli perché, sapendolo, potremo essere più ben disposti verso di loro e verso noi stessi, in occasione degli inevitabili conflitti quotidiani.

Il più delle volte, infatti, i bambini hanno ‘solo’ bisogno di essere riconosciuti nella loro individualità, di essere ‘visti’ per ciò che sono, per chi sono, e di potersi esprimere, sicuri che non verranno derisi, ridicolizzati o incompresi. Già questa comprensione aiuta notevolmente ad ampliare il nostro punto di vista che, di default, si presenta rigido, chiuso, sostanzialmente spesso prevenuto e impaurito.

Il modo in cui desideriamo che la nostra famiglia cresca, dipende solo da noi.
Tante delle risposte che stiamo cercando o che vorremmo ottenere sull’argomento si trovano nel nostro sistema famiglia, nella storia comune di ciascuno di noi. Così come per la reazione di coppia, tutto prende le mosse dalla relazione con noi stessi. Prima ancora, quindi, di esaminare il rapporto con i nostri figli, sarebbe opportuno avere il desiderio e la curiosità di indagare noi stessi, tenere conto che l’essere genitori ha anche fare prima di tutto con noi stessi, con la nostra storia famigliare e con le nostre esperienze di vita. E desiderare di saperne di più.

Si tratta, per cominciare, di provare a modificare la prospettiva con la quale, per tradizione o abitudine, approcciamo all’argomento ‘educazione’ provando a sentirlo come un nuovo cammino costellato di pazienza, amore e..tanta gioia, per scoprire che essere genitori consapevoli non solo é possibile, ma é anche un esperienza meravigliosa.
Non si tratterà di seguire, da domani, una nuova ricetta, ma, semmai, di imparare ad abituarsi a guardare alle cose con un sentire diverso. I nostri figli hanno pari dignità degli adulti che amiamo e non è per nulla necessario che ci prodighiamo a ‘insegnare’ loro l’educazione. Neppure dobbiamo essere loro amiconi o metterci al loro pari per carpire il loro apprezzamento e comprensione.

Quale reazione avviene dentro di sè, nel leggere questi concetti ?
Provando ad esprimerle si sentirà un energia diversa.

È molto semplice esprime questi concetti quanto difficile ricordarsene al momento opportuno. Quando un bambino si oppone, apparentemente, alle richieste del genitore che si sente subito frudtrato e super agitato per non fare tardi a scuola o al lavoro, provare a fermarsi un minuto, ad ascoltare le proprie frustrazioni e a considerare che il piccolo non sta in realtà ostacolando intenzionalmente i programmi, ma ha solo una esigenza, pari a quella dell’adulto, altrettanto importante e imprescindibile, che vuole solo essere ascoltata e condivisa.

Non concentrsi su come lo si convincerò a fare ciò che gli è stato chiesto, ma sull’ascolto di cosa accade, farà emergere la soluzione quasi da sé e, il più delle volte, proprio grazie alla sua collaborazione che nasce come reazione naturale al suo essersi visto e compreso.
Si tratta di un meccanismo simile a quello che valgono nella relazione di coppia. Più ci sentiamo ascoltati e capiti, più siamo disposti a venire in contro all’altro.
Con l’unica differenza, rilevante a mio avviso, che tra adulto e minore la responsabilità
della qualità della relazione resta solo ed esclusivamente in capo all’adulto. Ai figli, così come agli studenti da parte degli insegnanti, non va delegata tale responsabilità.
Capiterà addirittura di restare sorpresi nell’apprendere la loro innata capacità di inventiva e risolutiva delle difficoltà quotidiane.

A mio avviso, non tenere conto di questo aspetto potrà anche risultate apparentemente efficace nell’immediato, ma risulterà alla lunga deleterio per la loro crescita e, conseguentemente, per l’armonia famigliare.

I conflitti sono una parte imprescindibile di tutti i rapporti famigliari, e non solo.
Gli esperti da tempo ci dicono che le famiglie che sperimentano maggiormente l’armonia al loro interno, e nelle quali i componenti si sentono più a proprio agio, sono quelle che non nascondono i conflitti, ma che li affrontano consapevoli che quei conflitti possono tradursi, tempo dopo, in problemi più gravi anche, a volte, di salute.
Il conflitto si sprigiona incontrollato solo se le due posizioni sono distinte, staccate l’una dall’altra. Un discorso simile vale per il rapporto di coppia e per qualsiasi altra relazione adulta.
Ogni conflitto ci insegna qualcosa di noi stessi. L’occasione si manifesta proprio nel conflitto o disaccordo che, pertanto, può essere considerato una benedizione! Se ciascuno di noi riesce ad essere consapevole che l’altro rispecchia sé stesso, sospendendo il giudizio e il rimprovero, allora vedrà sé stesso e non solo un contraddittore fastidioso. Si accorgerà, quindi, che il conflitto é prima di tutto con sé stesso, che il suo odio é verso di sé. In questo senso si parla di ritiro delle proiezioni personali sull’altro e possibilità di proiettare nulla nell’altro se non cosa ciascuno ha scelto di essere.

La buona notizia quindi c’è ! La qualità della relazione con i nostri figli, come con tutte
le altre persone che fanno parte della nostra rete, dipende da noi, da chi siamo e da cosa vogliamo.
Certamente un lavoro non sempre facile.
Ci vuole allenamento quotidiano come quando si vuole vincere una maratona!

Francesca Todeschini

Il Counselor

Il Counselor è colui che sa osservare e ascoltare, con empatica autenticità, il disagio altrui accompagnando il cliente nel percorso di conoscenza di sé e nel riconoscimento e risveglio delle risorse personali che ciascuno ha già dentro di sé.
Counseling significa consigliare ? Non propriamente. La parola counselor deriva sì dall’inglese to counsel che, letteralmente, significa consigliare, ma la matrice è quella latina. Il verbo consulere, infatti, si traduce letteralmente con ‘avere cura, prestare aiuto’, mentre tra i significati di consulo si trova ‘sollevare, alzare’. Si tratta, quindi, di un prestare aiuto in una accezione specifica: prestare aiuto insieme, affinché il cliente possa sviluppare e rinvenire dentro di sé i personali strumenti atti all’autosostenersi, per sollevarsi dalla sua condizione di conflitto o disagio, utilizzando i propri talenti e potenzialità inespressi.

Carl Rogers, negli anni cinquanta, fu il primo ad utilizzare il termine counseling per indicare una relazione cliente-professionista nella quale il cliente è assistito nelle proprie difficoltà, senza rinunciare alla libertà di scelta ed alla propria responsabilità. Scrive Rollo May, uno dei fondatori della psicologia umanistica, psicologo e counselor: “non ho mai avuto a che fare con un cliente nella cui difficoltà non abbia riconosciuto, almeno in potenza, me stesso”.
Il counselor, quindi, non è un professionista che spoglia il cliente delle sue qualità individuali, perché sa che si possono mostrare come risorse; che non rende le sue manifestazioni caratteriali patologiche e non lo medicalizza, ma collabora con lui affinché, insieme, si possa giungere ad uno stato di benessere maggiore. In altre parole, quindi, il counseling promuove il benessere del singolo e dei gruppi.
Professione riconosciuta con legge n. 4 del 14 gennaio 2013.

Francesca Todeschini

Riflessioni sulla relazione

Quanto e in che modo contribuiamo a rendere equilibrate le nostre relazioni?

Non intendo dire che una relazione dovrebbe sempre essere “equilibrata”; né voglio creare una separazione tra relazioni equilibrate e relazioni non equilibrate, tra giusto e sbagliato o tra bene e male. Il non equilibrio e l’equilibrio fanno entrambi parte di una relazione.

L’unità dei poli opposti consente alla relazione di fluire.

IMG_2845Nella ricerca di una relazione che fa stare bene, quali parti di noi mettiamo in gioco ? Quali sono per noi gli ingredienti più importanti? Cosa siamo disposti a dare e cosa siamo disposti a ricevere ?

Quando ci sentiamo soffocati a stare dentro la relazione è perché pensiamo di dare troppo. Ci siamo mai fermati a chiedere che tipo di relazione siamo disposti a costruire, cosa vogliamo veramente e cosa siamo disposti a fare per ottenerlo? L’abbiamo mai chiesto a noi stessi ed esplicitato all’altro? Quante volte diciamo sì, invece di dire no, e viceversa?

Prendere consapevolezza di quanto “il non detto” influenza la relazione con noi e con l’altro è il primo passo verso la relazione. Le risposte sono dentro di noi, rimosse da abitudini, giudizi, pregiudizi, automatismi e aspettative.

Hellinger sostiene che “se in una relazione, qualsiasi essa sia, diamo più di quanto l’altro sia disposto a ricevere o pretendiamo di ricevere più di quanto l’altro sia disposto a dare la relazione ad un certo punto finisce”.

Nei momenti di rottura riteniamo che l’altro sia l’unico responsabile del nostro soffrire. Di conseguenza i processi sono inevitabili e, soprattutto, durano di più e con maggiore conflittualità e sofferenza per tutti, figli compresi.

L’attività di counseling può aiutare le persone a prendere consapevolezza ciascuno della parte messa nella relazione e di quanto l’altro sia lo specchio di ciò che non vogliamo vedere in noi stessi. Il conflitto non è la causa della sofferenza, ma il modo di approcciare a ciò che ci accade.

Spesso comunicazione verbale e non verbale non coincidono. Mentre l’avvocato guarda alla domanda del cliente, il counselor osserva la comunicazione incongruente e può intervenire in aiuto per comprendere meglio la richiesta.

Troppo spesso non sappiamo cosa vogliamo, oppure abbiamo troppa paura di sceglierlo. Esserne consapevoli con il cuore, e non con la mente, è un grande passo verso noi stessi e verso la risoluzione dei conflitti.

Francesca Todeschini

La condivisione crea valore

Se ho pensato di raccontare della mia esperienza lavorativa non è perché la ritengo rilevante in sé e per sé, ma perché credo che in tutte le esperienze individuali possa esserci qualcosa di comune e che, condividendo questo qualcosa, le esperienze e le idee possano migliorarsi e diffondersi, per il bene comune.

Quindi, condivido la mia esperienza affinché possa essere arricchita da nuovi spunti o diverse visioni degli stessi spunti.

Le mie riflessioni sono tratte anche dalla lettura di tanti libri e, in particolare, di autori come Hellinger, Hillman, Ulsamer, Krishnamurti, Osho, Wilber, Assagioli, Ferrucci, Castaneda, Juul e tutti coloro che in un modo o nell’altro raccontano dell’anima e dell’incontro con quello che in psicologia viene chiamato “il nostro vero sè”.

Quando vogliamo aiutare qualcuno, perché ci viene chiesto e lo accettiamo, è importante diventare consapevoli che non siamo un foglio oggettivamente bianco per chi ci sta difronte; non siamo neutri nella relazione. Dobbiamo essere consapevoli che non possiamo e non dobbiamo aiutare l’altro a tutti i costi e, soprattutto, non possiamo sapere in anticipo quale sarà la soluzione migliore per quella persona. Possiamo aiutarla a trovare la soluzione che quella persona sceglierà come giusta per sé, utilizzando gli strumenti idonei.

In ogni relazione, in qualche modo, ciò che l’altro pensa o fa dipende anche dal nostro modo di interagire; non siamo mai neutri rispetto ai pensieri ed alle azioni dell’altro; interagiamo nella relazione modificandola, anche se spesso inconsapevolmente.

Quindi, è importante incominciare a rivolgere l’attenzione a noi stessi, a come reagiamo e a come stiamo in presenza di determinate situazioni di conflitto che i nostri clienti portano, perché il nostro modo di reagire al conflitto e ciò che la situazione evoca in noi, influirà sicuramente quella relazione ed anche lo sviluppo della pratica o della vertenza processuale.

Francesca Todeschini